“In un mondo in cui la maggior parte della gente fa un lavoro non solo insoddisfacente ma anche profondamente stressante, con tutte le sue pressioni; in un mondo in cui non c’è niente di più raro di un qualcosa che assomigli a una comunità, noi scarichiamo tutti i nostri bisogni su una relazione o ci aspettiamo che essi vengano soddisfatti dalla famiglia. E poi ci meravigliamo se la relazione e la famiglia si sfasciano sotto tanto peso (…) Per decine di migliaia di anni nessuna famiglia è mai stata autosufficiente. Ogni famiglia era un’unità funzionale, parte di una più ampia unità funzionale che era la comunità - la tribù o il villaggio. Le tribù e i villaggi erano autosufficienti, non la famiglia. E non solo tutti lavoravano insieme, ma giocavano, pregavano insieme, di modo che il peso della relazione, del significato, non era confinato alla famiglia, né tantomeno a una relazione romantica, ma era ripartito su tutta la comunità. Fino alla Rivoluzione industriale la famiglia è sempre esistita in quel contesto”.
Queste parole le scrivono J.Hillman (uno dei più grandi psicoterapeuti viventi) e M.Ventura (scrittore giornalista) nel loro libro intervista del 1992 “Cent’anni di psicanalisi…e il mondo va sempre peggio”.
Ma questo era anche e proprio il senso del lavoro collettivo in Arkeon. Quello che Pietro riassume benissimo nel suo ultimo bellissimo post quando dice: “Ma ciò che rendeva per me speciale questo lavoro era il fatto che le persone e le famiglie si permettevano di condividere con le altre presenti questa fragilità e questa bellezza. Riconoscendo tutto questo come un dono. E un dono ancora maggiore, quello di poterlo condividere. Così le cerimonie. Quella per le coppie di sussurrarsi, dirsi, a volte gridarsi tra le lacrime, l’amore in pubblico, vincendo un naturale e pudico imbarazzo, non aveva prezzo. E che dire di quei bimbi alzati al cielo, in segno di gratitudine alla vita, a Dio ed ai nostri familiari che a Lui sono tornati?”
Arkeon era soprattutto - almeno per me - quello spazio di intimità tra le persone che creava una comunità non di persone ma di anima. E ho rivisto le tante famiglie, coppie di sposi e genitori e figli e nonni, che in quello spazio potevano incontrare altre persone come loro che attraversavano i loro stessi problemi, mostrando loro talvolta una possibilità diversa di rispondere. Una pedagogia attraverso cui le persone imparavano per empatia il linguaggio dell’amore e della vita, così come i bimbi imparano il linguaggio delle parole per desiderio di condividere e per imitazione.
A questo ho pensato alcune settimane partecipando al matrimonio di un giovane cugino. Al termine di una cerimonia molto semplice e molto bella, il sacerdote ha chiamato sull’altare i quattro genitori degli sposi, spiegando che quel matrimonio si celebrava anche grazie a loro e chiedendo loro di lasciare il proprio messaggio ai novelli sposi. Nessuno se lo aspettava, men che meno i genitori. Le due madri, come spesso capita, hanno accolto la sfida e si sono permesse di aprire il proprio cuore con poche parole semplici di augurio e responsabilità: “noi abbiamo iniziato 40 anni fa…ora tocca a voi”. I padri, come spesso capita, hanno invece nascosto nel silenzio i propri sentimenti, frenati dall’imbarazzo.
Molti hanno criticato il sacerdote, perché non si deve mettere in imbarazzo la gente…e forse avevano anche ragione. Ma dal lato mio ho sentito la cosa diversamente. Ho sentito che il sacerdote aveva chiesto ai genitori di guardare non alla folla tra i banchi ma ai loro ragazzi sull’altare, a valutare non il giudizio della gente ma l’ingenuità dei propri figli ed ad esporsi per gli uni e per gli altri, per fare comunità attorno a loro, per dichiarare che due sposi non sono soli ma sono un anello di una lunga catena, che trascende la propria famiglia.
Ho sentito dolore per il silenzio di quei padri, che non hanno trovato il modo di parlare né a se stessi né ai propri figli.
E ho sentito la distruzione dell'esperienza dei seminari di Arkeon, grezzi e imperfetti com'erano, come uno sfregio alla vita e alle sue possibilità.
In questi anni mi sono spesso domandato come sia possibile che persone che hanno conosciuto tutto questo possano averlo …dimenticato? In questi giorni parlavo con un caro amico di lunga data che, indipendentemente da me e per altri cammini, approdò anni fa ad Arkeon, con un maestro diverso dal mio, restando affascinato da quest’esperienza. E che a seguito degli eventi intercorsi, senza rinnegare nulla di quanto fatto, ha però sviluppato una posizione che penso di poter definire più amareggiata che critica. Amareggiata non tanto per la natura del lavoro, quanto per le contraddizioni evidenziate dal suo maestro nel proprio modo di comportarsi nelle relazioni personali. Al termine di una lunga telefonata la sua frase conclusiva è stata “…e queste erano le persone che dovevano portarci da qualche parte?”.
Ciò che gli ho risposto, e che ho sempre pensato, è che nessuno portava nessuno da nessuna parte, ma che semplicemente ciascuno usava quell’esperienza per farsi il proprio percorso. E che, anzi, proprio “l’inadeguatezza” di alcuni maestri – come il suo – erano la prova che i risultati erano il frutti del lavoro degli allievi, non dei maestri. Riprendendo quella frase chiave del Vangelo citata ancora nel post di Pietro: “la loro fede li ha salvati…”. Nei seminari la si chiamava “affidamento” e anche se si diceva che era l’affidamento al maestro, questo non era che lo strumento…l’affidamento vero essendo quello alla vita. Il che non significa che i maestri non avessero un ruolo…ma significa che i frutti o l’assenza di frutti discendevano per ciascuno dalla propria scelta su di sé e che l’esperienza condivisa diventava quell’opportunità che ciascuno dava a sé e agli altri, potendo trascendere la propria storia personale, potendo decidere se vivere una vita all’ombra delle proprie eredità e delle relative giustificazioni o viverla alla luce di una possibilità futura da costruire, in cui il passato non è più una catena ma l’esperienza attraverso cui mi sono reso pronto al domani.
Dieci anni dopo ...
6 anni fa
Caro Klee,
RispondiEliminauso le tue parole:
"Nei seminari la si chiamava “affidamento” e anche se si diceva che era l’affidamento al maestro".
Io ricordo perfettamente che spesso Vito ha detto che molte delle caratteristiche che attribuivamo al maestro scelto erano nostre.
Come in tutte le relazioni importanti l'altro è uno specchio di ciò che vorremmo essere e di ciò che non ci va di noi stessi.
Mi tengo strette nel cuore le parole "il proprio maestro interiore"...
pulvis
Cara Pulvis,
RispondiEliminaCiascuno di noi vive l'esperienza (a casa a scuola al lavoro o in famiglia) di confrontarsi con i giudizi, le provocazioni, gli stimoli o l'ironia di persone cui riconosce un'autorità. E ciascuno di noi valuta ogni volta fin dove "sà da sè" e dove invece vuole provare ad "ascoltare l'altro".
Poi c'è chi invece al maestro interiore preferisce quello esteriore e ne letteralizza le affermazioni - deformandole in modo grotesco - per non dover mai scegliere da sè ma poter dire invece "l'ha detto lui". Come "Babino lo sciocco" che se un giorno prendeva la pioggia e gli dicevano "avresti dovuto prendere l'ombrello", il giorno dopo prende l'ombrello anche se c'è il sole e poi si lamenta di aver ricevuto un consiglio sciocco.