venerdì 10 aprile 2009

La croce

L’interessante dibattito in corso sul blog di Fioridarancio mi suggerisce una riflessione che stava maturando sullo sfondo della Pasqua, di tanti avvenimenti in corso nella vita mia e delle persone che amo. Lì puntavano tante riflessioni nei miei post precedenti. Per non ripetere cose già dette da altri, invito chi volesse leggere questo post a rileggere prima brevemente i commenti al post di Fioridarancio (poi mi paghi le royalties, ok?).

In tutte le posizioni espresse trovo molti argomenti condivisibili. Credo che tra “la linea netta” che secondo S&P e Cosimo distingue Pietro da Giuda e la simile umanità che secondo Pulvis li accomuna ci sia la croce.
Pietro dice di esser disposto a seguire Gesù, ma ancora non sa che ciò significa portare la croce; quando questa si avvicina, lui tentenna, sfugge, ma alla fine si risolve e l’abbraccia: prima metaforicamente poi effettivamente. Giuda invece non contemplava alcuna croce nella sua idea di cristo e quando questa arriva rifiuta sia essa che Gesù, arrivando a denunciarlo per aver tradito le speranze che aveva riposto in lui (senza che lui mai le avvalorasse, anzi).
Credo anche – ma qui mi spingo certo oltre i miei limiti – che la differenza tra Pietro e Giuda di fronte alla croce si riconfermi nel momento in cui incontrano il proprio fallimento: Pietro piange calde lacrime di mortificazione, dalle quali nascerà l’abbraccio della propria croce; Giuda si suicida, rifiutandosi di farsi testimone della croce e quindi sfuggendola una seconda volta. Come non accettava il “fallimento” di Gesù, così non può accettare il proprio fallimento.

Come è già stato detto da altri, tante persone come Pietro si sono sfilate o mantenute a distanza di fronte alla vicenda di Arkéon. Alcuni invece hanno scelto la posizione di Giuda, denunciando il falso per avere la punizione di Vito. Perché?

Si badi bene che ciò non riguarda solo Arkéon, anzi. Accade anche in molti altri casi che si possono leggere in rete, guardando ad esempio le storie riportate sul sito Falsi abusi. Anche in questi casi, come nel nostro, si incontrano dei Giuda. Ma soprattutto si incontrano “professionisti” (psicologi, pubblici ministeri, assistenti sociali, poliziotti, …) che intervengono nelle relazioni familiari con modalità devastanti ed agghiaccianti, senza cercare la composizione e il superamento delle ferite, bensì il loro risarcimento; invocano, reclamano, pretendono la punizione esemplare, ponendosi al fianco delle vittime come paladini e non accompagnandole “a casa” (quale che sia di volta in volta casa); e a questo fine fomentano, rinfocolano la rabbia, il dolore, perché i colpevoli siano puniti, tacciando di viltà quelli che non denunciano, arrivando talvolta addirittura a forzare le persone perché “dicano ciò che sanno” finendo in effetti per far dire loro ciò che non volevano (si legga in proposito la vicenda del caso Brescia). Il dolore non va trasformato: va risarcito!

La domanda è perché?

In un suo bel post S&P dice “quanto spazio resta al professionismo delle relazioni familiari se padri e figli si parlano e si incontrano, se lo stesso accade a madri e figlie, ai mariti e alle mogli?”. Ancora una volta non so cosa volesse dire S&P, parlo quindi di come io intendo le sue parole.
Certo ci sono interessi in tutto questo: perché alcune caste professionali vogliono il monopolio del dolore e lo difendono da qualunque cosa possa ai loro occhi sottrarglielo; e perché il dolore delle persone lo si può cavalcare vendendo loro amuleti portafortuna e tarocchi così come cause giudiziarie. Questo aspetto pesa e tanto. Ma non posso scrollarmi di dosso la sensazione che la mole di rabbia, crudeltà, determinazione, ferocia che alcune di queste persone mettono nel loro sgomitare per un posto al sole sia eccessiva rispetto ad un semplice obiettivo di profitto. C’è dell’altro, del personale.
Perché è uno scandalo se madri e figlie si incontrano dopo essersi ferite, se padri e figli parlano dopo essersi combattuti, se mariti e mogli di ritrovano dopo essersi “uccisi”? Perché il dolore non può essere attraversato e trasformato? Cosa succede se le persone attraversano le proprie ferite per comprendere quelle dell’altro, se vittima e carnefice riescono ad incontrarsi come persone manovrate l’una contro l’altra da un dolore che nasceva altrove?
Un dolore devastante. Da cui rinascere. Un parto.
Personalmente mi inchino di fronte a questo e ascolto. Posso però immaginare che ciò sia inaccettabile ad alcuni. Probabilmente a chi quel passo non l’ha compiuto.

Immaginate A in cima a una rupe, impossibilitato a scendere, solo con B.
E immaginate che ad un certo punto A dica:
A: “Io ci provo, forse morirò ma ci voglio provare! Tu che fai?”
B: “No, sei matto, io non vengo!”
A: “Sei sicuro? dai!”
B: “NO, NON VENGO!”
A: “Allora vado io. Perdonami. Addio!”
B: “NO NON ANDARE”
A: “Ho scelto. Addio”
B esita, piange, grida…poi lo spinge giù dal dirupo.

Se non posso superare la mia prigione, meno ancora posso permetterti di uscirne lasciandomi solo.

6 commenti:

  1. Basta solo scegliere e come Cosimo disse,io ho compreso, sul post di Fior, sembra facile,èlontano da esserlo; ci vuole comunque impegno, Fede,....
    Un abbracio per quello che hai scritto !
    Fabia

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  2. Caro Klee. Questo tuo post merita una riflessione più accurata che non si può fare la mattina presto del giorno di Pasqua ;-)
    Intanto però ti scrivo per fare a te e alla tua famiglia i miei più cari auguri di una felice Pasqua.
    A presto.
    Fioridiarancio

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  3. @Fiduci34: grazie Fabia. Credo che la scelta sia la cosa che dipende da noi e di cui siamo responsbaili. Un abbraccio a te e auguri di buona Pasqua

    @Fioridarancio: ricambio l'abbraccio a te e alla tua splendida famiglia, spero che tu non possa ora leggere questo post perchè comodamente sdraiati in qualche bel prato a godervi la giornata di pasquetta.

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  4. Ok per le royalties, mi sembra il minimo ;-)...(disclaimer per chi ha l'abitudine a travisare: trattasi di una battuta, di uno scherzo).

    Per il resto, faccio davvero fatica a commentare. Leggendo il tuo post mi sono fatta un'idea di chi non vuole questa trasformazione, questa riappacificazione, ma è ancora troppo vaga per parlarne.

    Rispetto alla croce, di cui capisco ancora davvero poco, credo che abbia la capacità di dare la libertà.

    Il dolore della "vittima" è un dolore senza senso, un dolore a cui la "vittima" resta attaccata e attorno al quale ruota tutta la sua vita.

    Il dolore della croce è il dolore della trasformazione e della libertà. E' il dolore di non aver più nulla da perdere, nulla da difendere.

    Ed è il dolore dell'umiltà che si abbandona alla volontà e all'accoglienza di Nostro Signore.

    Sono solo pensieri sparsi, ancora non mi sento tanto "solida" al riguardo.

    Ciao e a presto.
    Fioridiarancio

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  5. Ciao Klee, arrivo a questo post illuminante dopo le feste pasquali. Non avevo mai riflettuto sul doppio no di Giuda.
    Per quanto riguarda i "professionisti", spingi giustamente oltre, quanto io ho solo abbozzato. Sono d'accordo: le motivazioni non sono solo economiche. E'una giungla di persone che proiettano la propria ferita - a mio giudizio - che, in molti casi non riconosciuta sul piano interiore, diventa smisurata. Da una parte, non è possibile che la proiezione della propria ferita non sia universale: ammetterne la particolarità sarebbe troppo doloroso. Dall'altra, come dici, accettare che gli altri conoscano una pacificazione minaccia la mia guerra. Non è un caso che le persone di cui parli non riconoscano innocenti, non possano dire quello sì, quello no. E l'altare del proprio dolore è talmente imponente - parlo metaforicamente - da consentire qualsiasi sacrificio.
    Trovo interessante che questa "giustizia fai-da-te", fatta da vari "professionisti" che entrano a gamba tesa nelle famiglie e nelle comunità, sempre santi ed impuniti, sia diventata vincente. In qualche modo, lo ritengo collegato all'eclissi dell'autorità paterna che non protegge, in origine, e non contiene poi l'espressione della ferita. Noi di Arkeon quest'autorità saggia ed attenta alla giustizia la stiamo ancora cercando.
    Ciao
    S&P

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  6. In questi giorni sono stato assente per lavoro e ho rivisto un amico che non vedevo da tre anni. Tra le varie cose, mi chiede come va con Arkéon. Non sapeva nulla di quanto sccesso da allora. Mentre provavo a spiegargli la storia, vedevo crescere sul suo volto lo sgomento, l'incredulità, l'amarezza. Io stesso facevo fatica a trovare le parole per raccotare qualcosa che a me per primo sembrerebbe incredibile. E quando mi ha chiesto più o meno "ma com'è stato possibile?" non ho trovato da rispondergli altro che "la folla ha chiesto Gesù, non Barabba!"

    @Fioridarancio: la tua frase sulla croce come trasformazione e libertà mi rimanda a una frase che ho trovato ieri su un libro di Jung che sto leggendo ("L'uomo e i suoi simboli"), a proposito del senso dell'iniziazione e della sua differenza col mito dell'eroe. "C'è una profonda differenza tra il mito dell'eroe e il rito dell'iniziazione. Le figure tipiche di eroi esauriscono i loro sforzi nell'ottenere soddisfazione alle loro ambizioni...al contrario il novizio che affronta l'iniziazione deve rinunciare a ogni desiderio e ambizione e sottomettersi alla prova. Egli deve essere disposto ad affrontarla senza alcuna speranza. Di fatto, deve essere pronto a morire...lo scopo rimane quello di creare simbolicamente lo stato d'animo della morte dal quale possa scaturire lo stato d'animo opposto, cioè della rinascita".

    @S&P: mi limito a ripetere due passaggi del tuo post che trovo centrali. "Non è possibile che la proiezione della propria ferita non sia universale: ammetterne la particolarità sarebbe troppo doloroso". "L'altare del proprio dolore è talmente imponente - parlo metaforicamente - da consentire qualsiasi sacrificio". Grazie

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